Caro amico ti scrivo così ti…innamori un po'.
Essì, viaggiatori del gusto, la musica che va tra i muri mangiucchiati dal tempo di questo localino di Tricase, a sud del sud, si mescola e confonde con odori, sapori, che dalla gola vanno dritti al cuore. 
Ed è subito amore.
Ancestrale, potente e a tratti indecifrabile.
Siamo alla tavola di Lemì Cozze e Gin, dove siede la curiosità e a fine pasto si alza la gratitudine, satolla delle emozioni che la storia personale prima e professionale poi di chef Ippazio Turco è capace di lasciare. 

A casa di Ippazio e Margherita

Un bistrò del mare incastonato tra vicoli stretti e strade che sanno di giallo e d'arancio, dirimpettaio di un antico palazzo e guardiano di basoli lucidi, è una scelta ragionata. Un posto dove si arriva di proposito, per conoscere Ippazio e le sue destrezze ai fornelli, il suo amore viscerale per il mare e i suoi doni, la sua capacità di rendere ricco il pesce povero e dargli una dignità che gli spetta di diritto ma che il racconto provinciale talvolta mette in ombra. 
E così proviamo per voi un menù scelto canzone dopo canzone, in una serata di primavera incerta ed estate che scalpita, proprio dal padrone di casa e presentato con leggerezza e sorrisi gentili dalla sua signora, Margherita.
Ci si arriva da via del Tempio, non una strada qualsiasi ma un viottolo malfermo, che si apre ad uno spiazzo memoria di ricordi antichi.
Una porta semplice, tanti vetri grandi per invogliare a guardarci oltre, una scritta che richiama ai baretti dove ancora i nonni di quaggiù dividono un tressette o una stoppa.
“Bar Lemì, cozze e gin”, in giallo come la luce del lampione poco sopra. 


Sedie di legno, che fanno casa e ricordi, ambienti spartani ma non a caso. 
Non occorrono fronzoli, parlano i sentimenti. Bagliori fugaci tra le volte a botte, i ricordi di mare e di reti e di pesca agli angoli delle pareti, e quella lavagna col menu raccontato dai gessetti che ti viene da dire: qui il tempo è davvero questione relativa. 
Dalla e De Andrè e ancora Dalla e ancora De Andrè, un battere e levare che si abbraccia ai suoni belli della cucina in fondo dove Ippazio, parannanza di livello, baffi, barba e lenti tonde, mette in scena il suo spettacolo.
Ogni piccola cosa va osservata e descritta, passo passo, perché quell'amore intrida occhi e cuore e sangue.
Un tavolino sulla sinistra, legno e bianco fiaccato dal tempo, la lavagna col menù che parla di mare, a sinistra il bancone pieno zeppo di vini che raccontano l'Italia e oltre. Il Mustazzu, ci pare un rosso di casa nostra considerando il nome e invece, perdonate l'eccesso campanilista della prima ora, è un corposo cannonau di Sardegna.

Gin Turco


Poi c'è poco più in là l'altra passione del patron…il gin Turco. Messo a punto con il figlio Luca, aromatico come il Salento, le sue coste, il suo entroterra, pizzicante di timo selvatico, finocchietto e virtuosismi mediterranei perché lo chef ama davvero origini e radici, dal mare profondo alla botanica. E insieme li ha impastati creando un luogo e un’offerta unica nel suo genere.
“Portiamo in tavola freschezza, territorio, passione ma anche emozioni ed esprienze”, sorride semplice.
Margherita, cargo sportivi e sneakers, giacca a quadretti e incedere delicato al limite dell'imbarazzo, affonda le dita nella storia di casa su , dietro al bancone mesce gin e tonica e quella freschezza va giù che è un piacere. 

Aperitivo e antipasti


A un angolo del tavolino lucido come di piastrelle, sprofondando in una seduta comoda e avvolgente, con le spalle alle reti da pesca e ai loro galleggianti bordeaux, le papille si sfregano le mani  - passateci l’azzardo – e gli occhi si sgranano su un’amuse bouche ruspante: crostone di pane, pomodoro maturo e alici del Cantabrico. Due morsi e il gin Turco va giù che è una bellezza…”com’è profondo il mare”.
Gli spazi si riempiono alla spicciolata, sembra di conoscersi un po’ tutti. Se il commensale avverte l’accoglienza e gode dal gusto, più facile è sorridersi, scambiare chiacchiere e sentirsi vicini.
A tavola si decidono le guerre o si fa la pace.


E noi la guerra la facciamo, morso dopo morso, alla ‘nduja di crostacei - gamberi bianchi e e viola e chele di astice – abbracciata morbida alla cicoria. Continuiamo a suon di fendenti, il viaggio d’antipasto, godendo del tripudio di colori salentini che vien fuori, prepotente, dai crostoni con paparina e cozze, aperte prima all’ampa poi cotte allo spiedo, le salsine anch’esse pinte e lucide, parlano il linguaggio delle olive nere e del pomodoro giallo. Una cartolina di saluti e baci dal Salento, che però si tocca, si gusta, profuma ed è soprattutto viva e tridimensionale. Quelle cozze allo spiedo hanno un sentore che non si potrebbe immaginare se non attraverso le due cotture quasi in sincrono, la paparina sa il fatto suo e gli schizzi di salse alternandosi aggiungono un guizzo sapido.
È tutto sincero, ciò che sta nel piatto. Come l’animo di chi lo plasma.
“Lavoravo in pizzeria, ero giovanissimo – si lascia sfuggire Ippazio all’ingresso del bistrot -, ce n’erano solo due in paese all’epoca. Ho fatto tanta pratica poi ho continuato a occuparmi di cucina portando avanti le mie passioni, quella per il mare e quella per le erbe”. Si è fatto da sé, ha cercato, trovato e custodito uno stile personale e originale che lo rendono riconoscibile, mise en place dopo mise en place e ai fornelli si sente un attore nato e senza imbarazzi, più che quando gli si fa una domanda vis à vis. Perché allora un pochetto cede alla timidezza.

Lo spaghetto felice


La pancia starebbe anche bene, in termini di capienza. La gola invece no, libera vuol conoscere altre tappe del viaggio e in tavola arriva con il giovane Alessandro uno spaghetto al dente con ragù di dentice, emulsione di uova di dentice e una spolverata di origano selvatico che si preannuncia dal profumo. Mare ed erbe, mare ed erbe…

Secondi di gusto


Una piccola deviazione rispetto alla strada maestra del pesce “povero”, con un pesce di prima qual è il dentice che ben figura con tutto il resto. L’estro val bene qualche sorpresa, poi si torna in carreggiata ed è la volta di due secondi: spicaluro alla brace su foglia di vite, morbido, un burro. I rebbi della forchetta sfaldano le carni del pesce spinato, il profumo della brace conduce ai porticcioli coi loro pescatori dai calzoni arrotolati. È bellezza. Pura e senza tempo.
Ancora una tempura di sarago su un sughetto che in realtà è figlio della cucina di recupero: è il sughino delle lische ma ha il sapore di un cibo da re.
Respiriamo un attimo, torniamo tra tavoli e bottiglie e pareti a leggere le storie di chi è passato e passerà, perché quei muri parlano e raccontano. Basta chiudere gli occhi, abbandonarsi senza riserve e il chiacchiericcio arriva e si mescola agli odori di cucina.


Il gelato alla mandorla è l’ennesima sorpresa, la granella scrocchia ma la mennula domina con la sua consistenza pastosa, che scalza il latte e si fa padrona, sconvolge le sinapsi e fa pretendere il bis.
Un taccuino, ancora pochi appunti sul diario di bordo e poi la necessità di condividere il viaggio con la macchina del tempo dei ricordi insieme a Ippazio e  Margherita sull’uscio. Poche parole e il cuore verace esplode in un caleidoscopio di ricordi, vite, conoscenze condivise, e padri e madri e valori. Quel cumulo di sentimenti ché è patrimonio immateriale della gente del sud, il primo indumento in valigia ovunque quella gente vada.  
È questo il sortilegio: trovare e cavare fuori dalla semplicità, la poesia che le è innata. Metterla in versi e portarla a tavola sfidando la moltitudine di proposte possibili della contemporaneità e contrapponendole un  futurista ritorno al passato. Non è ossimoro né gioco di parole: è Lemì!

Foto di Valerio Politano

Lemì Cozze & Gin - Via Tempio 20, Tricase (LE) - Tel. 3475419108
 

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