Una vita da gitano. Emanuele Giordani racconta il suo universo Gipsy

Pubblicato il 4 gennaio 2025 alle 12:00

Una vita da gitano. Emanuele Giordani racconta il suo universo Gipsy

Andiamo alla scoperta di Emanuele Giordani, ideatore del Gipsy Market e proprietario del The Gipsy Bar, un locale di tendenza al Pigneto dove la mixology si connette con il sushi fusion. Un progetto innovativo e avanguardistico pluripremiato dalla guida Blueblazer. 

Ciao Emanuele, partiamo dall'inizio. Quando nasce il progetto Gipsy? 

Il progetto Gipsy nasce nel lontano 2016 come progetto itinerante. Ecco perché il nome gipsy: doveva arrivare subito il messaggio: in inglese significa gitano e contiene al suo interno tutta quell’area semantica del viaggio e del girovagare che io non ho mai abbandonato. Ancora oggi, il progetto ha mantenuto la sua identità: siamo un market all’interno di eventi privati che si occupa della gestione del bar e dell’angolo sushi. Una realtà ormai consolidata nel panorama romano da diversi anni.

Nel 2016, il sushi in Italia e in particolar modo a Roma non aveva l’appeal che ha oggi. Come ti è venuta l’idea di avviare questo format?

Eh, bella domanda. Diciamo che sono stato un po’ visionario. Sia chiaro, non voglio pormi sul piedistallo o far passare il messaggio che sono stato più bravo di altri. Voglio solo dire che sono riuscito ad anticipare una tendenza e a cavalcare un’idea prima che diventasse di dominio pubblico. Ho iniziato portando questa proposta all'interno dei vari bistrot di Roma che sposavano la mia filosofia votata alla fusione e alla contaminazione fra idee culinarie diverse. In questi locali, proponevo il menù e un nuovo modo di intendere la cucina fusion. Sposare le altre culture culinarie, fonderle e creare un risultato migliore. Questa la filosofia del Gipsy, identica anche in termini di mixology. Ovviamente il mondo del sushi e della mixology non era inflazionato come lo è adesso.


Siete arrivati prima, insomma.


Dici bene, siamo. Il Gipsy è una mia invenzione e anche se non ho mai avuto soci, ho sempre anteposto il noi all’io. Io sarei riuscito a fare ben poco da solo, senza il mio team e le persone che hanno creduto nella mia idea. Quindi sì, siamo arrivati prima, ma quasi senza saperlo. Abbiamo anticipato anche il trend delle collaborazioni tra locali, che adesso vanno tanto di moda ma prima non le faceva nessuno. Qualche anno fa abbiamo vinto un bando regionale che premiava i progetti innovativi sul campo della ristorazione. Ero appena tornato da New York e avevo respirato un po’ di aria di internazionalità. Quando viaggi capisci che la vita è movimento e mai staticità. C’è tutto un mondo fuori e la cucina si presta in maniera naturale alla contaminazione. Proprio come la mixology.

Come mai sei tornato? Ti mancava l’Italia?

Devo essere sincero sì. Ho anche pensato a trasferirmi in America ma l’Italia è sempre l’Italia e ho deciso di tornare. Sul volo di ritorno, ho pensato a come far tesoro dell’esperienza americana e mi è venuto in mente questo format. La risposta è stata subito positiva e dopo un anno, abbiamo avuto il boom. Nel 2018 ho deciso di aprire il locale perché la mia idea itinerante aveva bisogno di un luogo tutto mio in cui poter esprimere al meglio la mia identità. La ristorazione stava cambiando e il sushi, da prodotto di nicchia, iniziava a diventare nazionalpopolare. Così ho deciso di creare il mio spazio fisico, ma non ho mai interrotto il flusso iniziale: un corner sushi e cocktail per matrimoni o eventi in generale.



Quindi il tuo locale è nato come una sorta di showroom per i futuri sposi?

Esattamente. I futuri sposi venivano da me per fare le prove del menù e per una sorta di aperitivo culinario di quello che sarebbe stato il giorno più importante della loro vita. Essendo aperto tutti i giorni, naturalmente, ho avuto la possibilità di farmi conoscere in tutto il quartiere. Oggi, oltre a gestire circa 120 matrimoni a stagione da maggio a ottobre con il Gipsy Market, mi sono creato il mio posto nel mondo: The Gipsy Bar. Un locale dove tutto è possibile che propone un’esperienza alternativa e dinamica. In poche parole, gitana.

Tu sei proprietario e bartender. Cosa ti riesce meglio secondo te?

Domanda di riserva? Io sono diventato bartender ma sono arrivato un po’ tardi in questo settore, perché prima facevo altro. Tutto è nato dalla mia passione e dalla voglia, che non è mai sopita, di dare un’anima al mio locale. Più che il proprietario, mi sento il primo ospite di questa casa. Il complimento che ci fanno tutti è che quando entri al Gipsy si respira un’aria familiare. Un piccolo salottino della Parigi bohémien dei primi del Novecento, dove chiunque entra lascia un pezzo di sé. Alcuni artisti ci hanno lasciato dei quadri, alcuni poeti ci hanno lasciato delle poesie. The Gipsy Bar è una fonte di ispirazione e noi accogliamo l'arte sotto ogni sua forma. Quindi, per rispondere alla tua domanda, mi sento il primo sostenitore del mio locale.



E poi c’è il tuo team.

Ovvio. Da solo, non sarei mai riuscito ad arrivare dove sono. Siamo una squadra, ci fissiamo degli obiettivi e cerchiamo in ogni modo di raggiungerli. La mia passione è sempre stata forte, come la tenacia del mio team. Insieme abbiamo superato centinaia di ostacoli, uno fra tutti il Covid. Sono passato da 120 eventi all’anno a zero. Potete immaginare come mi sentivo. Se non avessi aperto il locale, probabilmente sarei fallito. Per più di due anni, sono stato fermo ai box. Neanche un compleanno. Il locale era l’unica cosa che avevo, con tutte le limitazioni del caso. Finito il Covid, mi sono rimboccato le maniche e sono ripartito. Con il locale e con gli eventi. Passione, perseveranza, sacrifici. Non mi sono mai abbattuto e se adesso sono qui, lo devo alla mia voglia di non mollare mai. Sì, lo so che si dice sempre, ma nel mio caso è stato realmente così.

Vegetariani, vegani, celiaci, crudisti, intolleranti. Oggi come oggi, non è facile accontentare tutta la clientela. Tu come ti relazioni con questa nuova forma di ristorazione?

Noi abbiamo una proposta abbastanza circoscritta: facciamo sushi. Un mercato di nicchia, molto ben definito. Ad ogni modo, abbiamo clienti fissi che sono celiaci. Avendo una cucina di 18 metri quadrati, riusciamo a garantire che non sia contaminazione. In generale, cerco di soddisfare tutte le richieste. Ovvio, se vieni nel mio locale alle 9 di sera con il pienone e mi chiedi un percorso gastronomico per celiaci, io faccio di tutto per soddisfarti ma non è detto che riesca. Se la cucina sta lavorando a pieno regime, potrebbe venirmi complicato il fatto di dedicarti un paio di risorse solo per te. Se lo so per tempo, naturalmente, mi posso organizzare. Ad ogni modo, il 90% del nostro menù è adatto anche per le persone che non possono mangiare il glutine. Anche per i vegetariani abbiamo una proposta interessante che si compone di sei ricette di gusto.


Prima hai accennato che sei entrato nel mondo della ristorazione in età avanzata. Cosa facevi prima?


Io mi sono avvicinato a questo mondo per curare una forma di depressione. Il bar mi ha salvato. Ne parlo in maniera tranquilla, adesso ne sono uscito e forse la mia storia può servire ad altre persone per uscire da un momento negativo. Lavoravo in un settore completamente diverso e con il tempo mi ero reso conto che mi stava svuotando. Azienda di famiglia, settore marmi e graniti. Un lavoro molto particolare. Io mi occupavo di design. Poi, dopo la crisi del settore dell’edilizia, l’azienda si è dovuta ricreare un posizionamento e per sopravvivere, ha deciso di aprirsi all’arte funeraria. A contatto con la morte tutti i giorni, sono imploso. Quel lavoro non mi apparteneva più. Non potevo passare la vita a incidere lapidi. Sia chiaro, massimo rispetto per chi lo fa. Non stavo bene, ero entrato in depressione. Così un amico mio, per farmi svagare, mi ha fatto avvicinare al mondo della ristorazione. Ho iniziato come tutti: lavando una montagna di bicchieri.

E poi cosa è successo?

Ho fatto il primo corso che mi ha regalato la mia compagna perché anche lei è stata complice di questo mio cambio di vita. Dopo il primo corso di bartending, ho iniziato a fare un po’ di esperienze nei locali. Il mondo del bartending, come tutte le altre professioni, non si impara con un corso. Così ho deciso di investire soldi e tempo in master e di approfondire la mia conoscenza della materia. Col passare del tempo, ho iniziato a maturare l’idea di aprirmi un locale tutto mio. Ultima esperienza prima di mettermi in proprio la terrazza del The Corner in Viale Aventino. La cucina era stellata, io ero bar manager.


Parliamo di mixology. Adesso se ne fa un gran parlare, ma non è sempre stato così. Sono buoni tutti a fare un gin tonic, ma se ti dico mezcal?

Sfondi una porta aperta. Io ho un paio di drink in carta e nel mio piccolo, consumo almeno due bottiglie a settimana. Adoro il mezcal, lo considero uno di quei prodotti su cui si può sperimentare parecchio. Mixology per me significa equilibrio. Io prendo spunto dalla mia vita, dalle mie esperienze e da quello che ho provato in giro per il mondo. Il bancone del mio locale è un teatro: creare un drink significa entrare in scena. Ogni drink racconta una storia e nel suo essere un prodotto derivante dalla creatività, io lo assimilo alle opere d’arte. Sulla mia drink list ci sono 18 creazioni e ognuna di esse è un viaggio, un percorso sensoriale e olfattivo. Mi piace il concetto di palato mentale: per creare connessioni, fantastico abitualmente sull’abbinamento di sapori e ingredienti. Una sera sono venuti una coppia di americani che volevano un Di Saronno sour. Io avevo finito il di Saronno. Cosi gli ho fatto un drink che sembrava realmente un Di Saronno sour ma senza la materia prima. Ecco cosa significa per me la parola mixology. Mi sento come un artista che dipinge con la sua tavolozza e che sperimenta gusti, profumi e sensazione. Certe volte mi stupisco anche io: è come se ogni giorno, attraverso la creazione di signature, imparassi a conoscermi meglio.

Parliamo di futuro. Domanda da un milione di dollari: The Gipsy Bar è un punto di arrivo o un punto di partenza?

Difficile rispondere in modo netto. Se arriva un finanziatore e mi propone di esportare il The Gipsy in tutto il mondo, potrei anche pensarci. Allo stesso modo, penso che non sarebbe male aprire uno spin off un po’ meno elaborato. Sicuramente è un progetto in evoluzione e per sua natura, sarà sempre dinamico. Il mercato è in continua evoluzione e quello che piace oggi, non è detto che piaccia domani. Se c’è una certezza nella mia vita è che la mia indole è gitana: sono sempre in movimento, non mi fermo mai.

  • CIBO CHE FA BENE
  • TRIBÙ DELLA NOTTE
  • VITA DI QUARTIERE

scritto da:

Angelo Dino Surano

Giornalista, addetto stampa, web copywriter, social media manager e sognatore dal 1983. Una vita intera dedicata alla parola e alle sue innumerevoli sfaccettature.

IN QUESTO ARTICOLO
×