Contrariamente a ciò cha affermava Aristotele, Il poké non è un’insalata di riso. È sfidare i tuoi amici a creare le combinazioni più interessanti di ingredienti esotici, mai assaggiati prima. Un fenomeno culturale, insomma. E siccome le analisi sociologiche vanno affrontate con perizia, Mattia Acchioni, ideatore di Poké Factory, ti racconta il suo locale come pillola della rivoluzione del poké in Italia. Se poi ti sale un certo languorino, Poké Factory ti aspetta a Mestre centro, anche da asporto o a domicilio (lo trovi sulla tua app di delivery di fiducia).  

Come hai cominciato?

Ho studiato Comunicazione e ho lavorato per Mymenu, quando esisteva soltanto da pochi mesi. Da Padova mi sono trasferito a Milano, dove ho assistito alla rivoluzione del food delivery, all’arrivo in Italia delle big del settore che ora chiunque conosce. È stato epocale: queste aziende tappezzavano le città; la concorrenza nel settore era esplosa. Tutti, anche gli insospettabili, si affidavano al delivery, dal kebabbaro al ristorante quasi stellato. Prima era impensabile non mangiare la pizza, se si ordinava qualcosa a casa. Una valanga di opzioni è stata sbloccata da questo sconvolgimento. 

Sei il testimone diretto di un momento clamoroso. Il collegamento tra delivery e poké è stato immediato?   

In verità, ho inventato Poké Factory perché nel 2019 mi ero stufato di Milano, desideravo evadere. Le prime pokerie erano nate lì, nel 2018. Avevo assistito al boom delle pizzerie gourmet, delle hamburgerie gourmet, ma si trattava di realtà dalla capacità produttiva limitata, vincolate al forno, alla piastra… Il poké no. Non richiedeva preparazioni espresse o cotture particolari; era fresco, semplice, veloce, apprezzato. Ho esposto la mia idea al mio coinquilino di Modena e subito siamo diventati soci.

Siete stati pionieri del poké in Italia…

Abbiamo aperto la prima sede a Padova, nel 2019. Forse avevamo anticipato troppo le tendenze: abbiamo iniziato a registrare le prime vendite corpose quando è avvenuta una solida penetrazione culturale e il pubblico ha conosciuto davvero il poké. Nel 2020 abbiamo aperto a Modena e da lì abbiamo sviluppato il filone veneto-emiliano-romagnolo. Mestre è la tappa che abbiamo raggiunto nella primavera del 2022. 

Qual è la chiave del successo per una catena?

Premettendo che non penso che Poké Factory abbia ancora raggiunto il successo, il cardine è avere la testa da catena ma i piedi saldi sulle realtà territoriali. Le dimensioni aiutano a gestire questioni come il rapporto con i fornitori, ma non bisogna riflettere soltanto in macroscopico. Il pubblico non ragiona da azienda: una grande collaborazione può essere un’idea interessante, strutturata; ma se non è riconosciuta, allora fallisce. Una cooperazione con un negozio vicino, invece, è percepita intrigante dai frequentatori abituali della zona. Inoltre, ciascun territorio ha particolarità da evidenziare. A Padova il poké rappresenta spesso l’alternativa all’insalatona durante il pranzo; a Mestre, il poké è svago da sabato sera, intrattenimento con gli amici. L’analisi di queste dinamiche si lega al motivo per cui non apprezzavo il clima milanese: preferisco la piccola città, la piazza con gli anziani che giocano a carte al bar. Per questo ritengo indispensabile che chi occupa la mia posizione sappia lavorare nei negozi, anche banalmente tranciare il salmone. A me piace cucinare, da amatore. Adoro mangiare bene, più che altro. Ovviamente, ho assaggiato il vero poké hawaiano: in Italia non si apprezzerebbero i pesci oceanici marinatissimi e così tanta cipolla. 

Il sushi all-you-can-eat è analogo al poké. Cucina etnica occidentalizzata. Nel loro successo, quali sono le differenze tra questi fenomeni?

Il sushi all-you-can-eat risponde al sogno italiano: “mangio tanto e spendo poco”. Il poké, invece, ti lascia immedesimare in uno chef che seleziona gli ingredienti per combinazioni inedite; puoi mangiarlo anche cinque giorni di fila senza stancarti. È ancora più comodo di un hamburger, perché lo mangi stravaccato sul divano senza temere che il condimento sfugga dal panino e ti macchi la maglia. Senza contare che è armocromatico, instagrammabile. Rispetto al sushi, il problema del poké è la crisi di identità: non vuole definirsi fast food perché teme che abbia un’accezione negativa. Personalmente, non apprezzo le formule di “poké restaurant” con il calice sul tavolo, ma ciò che davvero mi turba sono le ghost kitchen, che creano brand all’occorrenza, improvvisano menù etnici e assecondano il mercato. Ci stava come ancora di salvezza durante la pandemia ma non è un modello sano di business. 

Come ti vedi tra due e tra dieci anni?

Tra due, spero che le persone mangino ancora poké. Mi piacerebbe svincolare il prodotto dalla sua stagionalità. Inoltre, per noi l’identità è importante: siamo sinceri, disruptive, con un tono di voce non istituzionale. Ci piace prenderci in giro insieme ai clienti. Per questo collaboriamo con entità come Manifesti Abbastanza Ostili. Tra dieci anni, non lo so. Non voglio neanche saperlo, rovinerebbe il gusto. Mi piace il mio lavoro ma desidero non essere mai soddisfatto. Ogni tanto è bello e giusto ripristinare alle impostazioni di fabbrica, reinventarsi.

E se domani il poké non esistesse più?

Sono appassionato di vini naturali, talvolta definiti funky. Mi butterei sull’enogastronomico, magari coniugando questi vini allo street food, non in una realtà di catena.   

Poké Factory Mestre
Indirizzo: Calle Giovanni Legrenzi, 4 - Mestre (VE)
Telefono: 3897680406
 

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