Matteo Coppotelli e l’hamburger: un amore che nasce da lontano

Pubblicato il 19 dicembre 2019

Matteo Coppotelli e l’hamburger: un amore che nasce da lontano

Raccontare la storia di un locale spesso significa raccontare la storia del proprietario. Solo in questo modo si possono affondare le radici nelle motivazioni che hanno portato una persona ad aprire un locale in un determinato luogo. Matteo Coppotelli gestisce (assieme alla sua ragazza Federica Lucantoni) il Cult Burger and Things, una delle più rinomate hamburgerie della capitale che propone una cottura innovativa: il sottovuoto. Come si arriva a proporre un hamburger del genere? Lo abbiamo chiesto a Matteo, che non è solo il titolare ma è anche lo chef.


Da dove parte ll'idea di Cult Burger and Things?

Tutto è iniziato circa due anni e mezzo fa. Io e la mia ragazza lavoravamo insieme a Milano, io ero il cuoco, lei caposala. Preparando i pranzi per gli uffici, ci siamo accorti che gli hamburger che cucinavo io piacevano molto. Tornati a Roma, abbiamo deciso di aprirci un locale. L’idea di partenza era un ristorante. Abbiamo cercato uno spazio ma la nostra disponibilità non era illimitata e “ci siamo accontentati” di un buchetto in Via Cavour. Lì mancava una hamburgeria e per di più il nostro era “diverso”, improntato al sottovuoto che poi è la cottura migliore per mantenere all’interno tutte le proprietà della carne. In soli due mesi, eravamo diventati una dei locali più affollati della zona. 


Immagino non sia stato facile proporre ai turisti un hamburger sottovuoto quasi gourmet. Di solito sono abituati a mangiare nei fast food.

No, assolutamente. All’inizio qualcuno storceva il naso e chiedeva una certa tipologia di cottura. Gli rispondevamo che non si poteva scegliere la tipologia di cottura: il sottovuoto ha dei tempi ben precisi e devono essere quelli. In pochi mesi eravamo diventati una delle migliori hamburgerie di Roma e avevamo in mente l’idea di aprire un secondo locale. La Delibera 47 (17 aprile 2018) però ha messo la parola “fine” al nostro locale: chi ha meno di 3 anni di iscrizione alla Camera di Commercio non poteva esercitare più nel centro storico. Di conseguenza abbiamo lasciato il centro storico e ci siamo spostati qui, a due passi dal Vaticano.

Come sei arrivato a diventare cuoco? È sempre stata una tua passione o lo sei diventato strada facendo?

Partiamo dal fatto che sono sempre stato una buona forchetta. Ero un tecnico teatrale, facevo completamente un altro lavoro e spesso lavoravo in trasferta. Ogni giorno mangiavo in posto diversi, in quasi 10 anni ho girato tutta l’Italia. Qui è nata la mia passione per la cucina, che mi ha portato a trasferirmi in Portogallo per fare il cuoco. Poi di nuovo Roma, Londra e Milano. A contatto con cuochi e cucine ad ampio respiro, mi sono innamorato del sottovuoto: di solito è un tipo di cucina che viene proposta nei ristoranti stellati e io mi sono detto: perché non portarlo nella cucina povera? L’hamburger cotto sulla piastra è una cosa, l’hamburger sottovuoto è un’altra. Non perde nessun liquido.


Come avviene il processo del sottovuoto?

Ogni hamburger viene macinato da noi. Lo prepariamo esclusivamente a mano, per questo non hanno una forma perfetta ma leggermente più bombati. Dopodiché li mettiamo in buste sottovuoto e li mettiamo nel roner a bassa temperatura, che non dirò, per diverse ore. Facciamo la stessa identica cosa per ogni tipologia di hamburger: carne rossa, pollo, salmone, vegetariano, vegano, polpo. Ogni materia prima ha la propria temperatura. La differenza con quelli “classici” è abissale. Quando cuoci un hamburger da 200 grammi sulla piastra, diventa 120 grammi. Quando lo cucini sottovuoto, perde solo 20 grammi e tutti i succhi rimangono all’interno. Basta metterlo un minuto e mezzo in piastra da ogni lato ed è pronto per essere assaporato.

Oltre alla tecnica del sottovuoto, è la materia prima a fare la differenza. Quanto è importante scegliere i prodotti giusti?

Il nostro macinato è sempre sceltissimo, perché deve avere il giusto rapporto fra parte magra e grassi. Oltre al macinato classico abbiamo messo il marango, che è un incrocio fra il black angus e il maremmano. Poi abbiamo inserito anche l’hamburger di wagyu, che essendo all’80% composto da grassi abbiamo dovuto equilibrare con una parte magra. E poi c’è il pane, la prima cosa che la gente sottovaluta. Ho provato più di 30 forni a Roma e adesso ci affidiamo a un forno gestito da una pizzaiola napoletana. Il pane è fantastico, è morbido, non è il classico pane americano dorato, è leggerissimo, fatto solo con il lievito madre.


Roma è piena di hamburgerie. Perché una persona dovrebbe venire a mangiare qui?

Per almeno tre motivi: la carne (o il pesce), il pane e gli abbinamenti. Da noi non troverai mai il semplice cheese bacon o l’hamburger con pomodori secchi e melanzane grigliate. Per noi un hamburger deve aver 4 ingredienti: una salsa, un’insalata, un formaggio e una cosa extra. Il nostro cavallo di battaglia prevede una composta di mele cotogne e gorgonzola, radicchio tardivo, lardo di colonnata e insalata. Quello al tartufo è composto da paté di carciofi romani, bernese al tartufo, guanciale e insalata. I nostri accostamenti non sono mai banali, sono sempre alla ricerca di sapori interessanti che possano esaltare il palato. Noi ogni giorno prepariamo composte e salse. In totale abbiamo 36 salse, tutte fatte da noi.

Secondo te, Roma è pronta per il prodotto che gli stai offrendo o sei un po’ avanguardista?

Difficile dare una risposta secca, la verità sta nel mezzo. I turisti capiscono il prodotto che gli stiamo proponendo, gli italiani stanno imparando ad apprezzarlo. Chi lo ha provato, è sempre ritornato.

Come è cambiato, se è cambiato, il tuo menu da quando hai aperto?

Prima il nostro menu era molto vasto. 30 vini rossi, 10 bianchi, 40 birre artigianali, avevamo messo anche dei primi piatti. Poi ci siamo accorti che in realtà chi più fa, meno fa. Da noi vieni e ti mangi sostanzialmente l’hamburger. Sì, puoi trovare tapas, insalate, piatti unici con la carne, tagliate di verdure e chips. Ma è l’hamburger la colonna portante e nel nuovo menu abbiamo inserito anche la possibilità di scegliere il pane: classico, pomodoro e semi di papavero, noci e semi di chia.

Quanto è difficile portare avanti un’attività commerciale in Italia? La burocrazia interviene nella vita di tutti i giorni?

Se ti dovessi iniziare a parlare dei problemi burocratici, starei qui fino a domani. Per quanto concerne la cucina, più leggi fai e più sono contento. Facendo il cuoco, so cosa vuol dire dare un prodotto eccellente, il problema è la burocrazia “fuori dalla cucina”. Mi viene in mente la delibera 47, che ci ha costretto a chiudere l’attività. Qual è il senso di quella delibera? Perché “costringere” un ristorante che funziona a chiudere perché il titolare non ha alle spalle 3 anni di Camera di Commercio? Era un locale che funzionava, alla sera avevamo la fila di turisti fuori.


Ti viene in mente un aneddoto divertente accaduto nel tuo locale?

Sì, una volta è venuta a mangiare una signora americana, texana, se non sbaglio. Era con suo marito. Ordinano l’hamburger, gli spieghiamo la cottura e finisce lì. Quando arriva il suo piatto, lei inizia a mangiarsi il pane. Solo quello. La carne non la tocca. La mia ragazza le chiede se va tutto bene, lei dice che non si fida della cottura e fa i complimenti per il pane. Il marito insiste e lei lo assaggia. Dopo pochi secondi, aveva messo il tovagliolo attorno all’hamburger e se lo stava divorando alla velocità della luce. Poi ci ha detto che era il miglior hamburger che avesse mai mangiato. Ci capita di dover lottare contro i pregiudizi sull’hamburger sottovuoto perché il colore non è quello classico. Dentro è rosato e la gente crede che non sia cotto, in realtà è solo cotto in maniera diversa.

La classica domanda da mille e una notte: progetti per il futuro? Come immagini la tua hamburgeria tra qualche anno?

Qualche giorno fa eravamo a New York e devo dire che il terreno, per chi vuole investire, è molto fertile. Ci sono hamburgerie dappertutto, ma la cultura del sottovuoto ancora non ha preso piede, non esistono. Avrò mangiato almeno una cinquantina di hamburger e laggiù c’è proprio una concezione diversa da quella che ho io. Un’altra idea è quella di produrre il nostro hamburger su larga scala. Costerebbe più del classico hamburger che si trova al supermercato, ma la qualità non sarebbe paragonabile.



Immagini provenienti dalla Pagina Facebook di Cult Burger and Things

  • GLI ADDETTI AI LAVORI

scritto da:

Angelo Dino Surano

Giornalista, addetto stampa, web copywriter, social media manager e sognatore dal 1983. Una vita intera dedicata alla parola e alle sue innumerevoli sfaccettature.

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