Ci sono locali che resistono al tempo come vecchie fotografie incorniciate: evocano ricordi, ma restano vivi nel presente. Ci mostrano chi eravamo e pure chi saremo. Pizzeria 1955, in via Palazzo a Mestre, non si limita a servire semplicemente pizza: custodisce una memoria condivisa e la rilancia con un rebranding che guarda al futuro senza snaturare il passato, quello della famosa Pizzeria Garibaldi. Il calore umano è ovunque, lo senti sulla pelle appena entri. È il dettaglio da cui partire per raccontare un luogo dove tornare più volte, dove sentirsi parte integrante di una comunità, di una rete di relazioni. Tra le prime pizzerie della città, questo locale è stato il vero social network mestrino prima dell'avvento di Facebook e compagnia bella. Qui sono nati amori, amicizie, relazioni più o meno durature. Merito della pizza, certo, ma anche di una storia che, ora, scrive un nuovo capitolo di un romanzo collettivo che ci riguarda tutti. Marco Rampazzo, 30 anni, oggi alla guida del locale di famiglia insieme al socio Matteo Casella, ce lo racconta con gli occhi di chi ha ereditato una storia e ha deciso di farla pulsare ancora più forte, nel presente.

"La pizza come una volta": un motto o una dichiarazione d'intenti?

«Entrambe. È una frase che dice tutto, senza bisogno di spiegazioni. La nostra è una pizza che conosci se sei cresciuto a Mestre. Non abbiamo mai cambiato ricetta, mai rincorso le mode. Facciamo le cose semplici, per bene, proprio come mio padre e mio nonno prima di me. L'impasto è quello storico, scrocchia un po' sul cornicione, ma solo il giusto. La gente ci torna per questo. È una questione di memoria, di gusto, ma anche di fiducia. Quando ti siedi da noi, ti devi sentire a casa».

Tre generazioni dietro a un forno: cosa significa per te?

«Un'eredità viva. Mio nonno ha iniziato nel '55: il locale era un bar, poi si è trasformato in pizzeria. Questo posto è sempre stato un centro di gravità per Mestre. Qui si veniva prima o dopo il cinema Palazzo, ci si sedeva agli stessi tavoli, si ordinava la "solita". Sono cresciuto guardando stendere la pasta con gesti sicuri, ascoltando le storie dei clienti che si tramandavano da un tavolo all'altro. Oggi cerco di mantenere quella continuità: far sentire la gente dentro una storia. Una storia vera, contraddistinta da cura del dettaglio, artigianato, tempo e costanza».

Com'è nato il rebranding?

«Abbiamo un'importante storia alle nostre spalle. Il rebranding è un modo per dire: siamo ancora quelli di sempre ma lo raccontiamo in modo nuovo. Abbiamo scelto colori forti, segni grafici chiari, abbiamo cercato di inserire nuovi dettagli nella continuità, perché questo è sempre stato un posto accogliente, è nel suo DNA. Volevamo che il locale parlasse, che spiegasse subito cosa sei venuto a fare: a stare bene, a mangiare una pizza sincera, a respirare un’atmosfera rilassata. Abbiamo lavorato con entusiasmo, a quattro mani, io e Matteo, mettendo tutta la nostra energia e le nostre visioni personali. Siamo complementari da questo punto di vista, ciascuno si ferma dove l'altro può portare il suo valore aggiunto. Avevamo però subito chiaro cosa desideravamo: un locale che ti abbraccia quando entri, non un concept senz'anima. Questa vuole essere una fucina di talenti, dove i giovani mestrino possono crescere, mettersi in gioco».

Parliamo di pizza: cosa trova chi apre il menu?

«Zero effetti speciali. Trova pizze con tre, quattro ingredienti al massimo. Trova la Margherita che profuma di pomodoro buono, la Diavola che pizzica il giusto, la Capricciosa con le verdure fresche. Abbiamo massima attenzione della materia prima, tanto che alcuni fornitori sono gli stessi da decenni e non ci sogniamo di cambiarli. Siamo cresciuti con loro e lo faremo ancora. L'impasto viene lavorato ogni giorno dalle mani esperte del nostro pizzaiolo, che io considero un vero artigiano del gusto. È una pizza fatta come una volta: essenziale, onesta, piena di sapore. Niente fronzoli, solo tecnica, passione e tanta voglia di collettività».

Un discorso che va controcorrente. E Instagram in tutto questo?

«Non c'è. Zero glamour, tutto contenuto. Abbiamo scrollato sui nostri social pizze gourmet, pizze nere, cornicioni ripieni di ogni tipo. Noi siamo rimasti qui, con il nostro forno a legna, le nostre mani infarinate, i fornitori locali. Ogni giorno impastiamo, lasciamo riposare, controlliamo l'umidità, cuociamo come si deve. È una pizza che racconta la sua origine, non ha bisogno di effetti. Chi viene da noi cerca questo. Non foto da postare, ma pizze da condividere. Storie, ciacole, il tempo che rallenta, un'altra dimensione».

Il locale è in zona pedonale, con vista sulla Torre Civica: quanto conta il contesto?

«Conta tanto. La vista sulla Torre è a suo modo iconica. Il plateatico è il nostro salotto all'aperto. C'è silenzio, passeggio, gente che si ferma. Qui si racconta, si ascolta, si prende il giusto tempo per stare insieme. Si stacca dalla frenesia, si torna a un ritmo più umano. È questo che intendiamo per sentirsi a casa. Per molti clienti è come tornare da vecchi amici. Non è solo ristorazione: è presenza quotidiana, è relazione».

E con Matteo come funziona il lavoro?

«Siamo complementari. Lui è uno molto operativo, gestisce lo staff, i fornitori. Io mi occupo della parte creativa, del racconto, della visione aziendale, di dove vogliamo arrivare. Mio padre mi aiuta con la contabilità, lui che ha vissuto una vita qui dentro. Ci sta supportando molto in questo percorso. Con Matteo condivido valori, entusiasmo e anche una certa ossessione per i dettagli. È la cifra della nostra umiltà, perché davvero imparo ogni giorno qualcosa di nuovo. Non smettiamo di sperimentare, di ragionare. Questo è il nostro centro di gravità permanente, stiamo mettendo tutti noi stessi senza cercare scorciatoie. Siamo pronti, ci crediamo davvero».

Cosa significa essere un punto di riferimento da decenni in città?

«Significa esserci. Sempre. Fare in modo che ogni cliente senta che ci teniamo. Non si tratta solo di cibo, ma di relazione. Il nostro locale è come un social network ante litteram: gente che si incontra, che condivide, che si passa parola. È così da decenni. Qui sono nati amori, amicizie, c'è chi ha festeggiato la prima comunione e ora porta i figli. Noi siamo un filo rosso. Questo non lo costruisci con una strategia, lo costruisci con la presenza, con il saluto sincero, con il ricordarsi di un nome o di una pizza preferita. È così che si costruisce una comunità, dalle piccole cose. Dalla cura».

Avete una politica di prezzi contenuti...

«È una scelta etica. La pizza deve essere accessibile. Noi non abbiamo bisogno di alzare i prezzi per raccontare valore. Il nostro è nel lavoro quotidiano, nel rapporto con chi torna ogni settimana. Vogliamo che la gente possa permettersi di venire spesso, non solo in occasioni speciali. La pizza buona non dev'essere un lusso. Deve essere fatta come una volta, con cura, con rispetto, e portata al tavolo senza essere elitaria».

Cosa ti ha spinto, a trent’anni, a prenderti una responsabilità così grande?

«Penso che a un certo punto la vita ti chiami. Io sono cresciuto dentro questo locale, l’ho visto cambiare, l’ho visto resistere. Non potevo restare fuori. Sento che questa pizzeria ha ancora tanto da dire e io voglio essere la voce che la porta avanti. È un gesto d’amore per la mia famiglia, ma anche per la città. Abbiamo bisogno di punti fermi, di posti autentici. Di storie vere. Io ci provo, magari vado controcorrente, ma questa sento che è la mia strada».

Come sta andando questo nuovo capitolo?

«Molto bene, quasi inaspettatamente. La gente sta accogliendo la nostra visione, la percepisce a pelle quando entra. Questa è la soddisfazione più grande, significa che la sincerità premia, sempre. Così come il sacrificio, l'impegno. A me piace accogliere, aiutare, essere generoso con gli altri. Sono testardamente altruista. Tutti noi ci mettiamo il cuore».

La ristorazione era un tuo sogno nel cassetto?

«Qualche anno fa mai mi sarei immaginato che sarei finito qui. Non era nei miei piani, nemmeno lontanamente. Ho studiato altro, ho fatto esperienze diverse, ma ogni volta, anche se solo con la testa, tornavo qui. Era come una calamita. Poi ho sentito che era arrivato il momento di fare sul serio, di dare continuità a qualcosa che sentivo profondamente mio. E ora eccomi qui: non potrei immaginarmi altrove. Questo è il posto dove posso davvero esprimere me stesso, dove ogni giorno sento di costruire qualcosa che ha un senso. Ho intrapreso tante strade ma ogni volta c'era qualche ostacolo che mi ostruiva la via. Qui è stato diverso. Qui i problemi ci sono stati, specie all'inizio del cammino. Normale che sia così, ma tutto magicamente a un certo punto si è allineato. Riempiendo di nuovo significato la mia vita».

Cosa ti emoziona davvero di questo lavoro?

«Il momento in cui riconosci le persone, e loro riconoscono te. Quando si crea quella familiarità che va oltre il piatto, quella connessione umana. Quando un cliente ti racconta un pezzo della sua vita e tu te ne senti parte, anche solo per un attimo. Mi emoziona vedere un padre che spiega al figlio: “Qui ci portava il nonno”. Mi emoziona chi sceglie di festeggiare qualcosa qui. È un senso di fiducia profondo. Poi c’è il profumo del forno a legna, ogni mattina, che mi riporta a quando ero bambino. Quello non cambia mai».

L'anima del locale...

«Sì, è il nostro cuore pulsante. Poi c'è l'impasto, ovviamente, che ci identifica: da lavorare, da toccare, da sentire. E poi arrivano la gentilezza, l’accoglienza, il saluto sincero. Sono cose che non si improvvisano, nascono da un’attitudine che portiamo avanti da generazioni».

Un aneddoto che ti è rimasto addosso?

«Ce ne sono molti, non uno in particolare. E ognuno, a suo modo, ha lasciato un segno. Ciò che mi colpisce è la fiducia con cui le persone, di ogni età, scelgono questo posto per condividere frammenti importanti della loro vita. Compleanni, ricorrenze, cene con i propri cari. Pensarci mi emoziona ogni volta, soprattutto il sapere che, in un mondo così veloce, qualcuno decide di fermarsi qui, con noi, per quei momenti che contano. È come se ci aprissero una finestra sulla loro storia, e noi potessimo entrarci in punta di piedi. Questo è il motivo per cui facciamo quello che facciamo: regalare momenti di serenità, autentici, in un luogo che da generazioni fa sentire tutti un po' a casa. Per molti, era la tappa fissa dopo il cinema con mamma e papà. Oggi tornano con i figli. Ecco, questo per me ha un valore enorme: è la nostra cifra, quella che ci contraddistingue, quella che sentiamo più nostra».



Pizzeria 1955 | La Pizza Come Una Volta
Via Palazzo, 44 - Mestre (VE)
Tel: 041975926

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