Gaetano Tartaglione: "In cucina cerco l'essenza, non l'estremo"

Pubblicato il 1 novembre 2025

A 27 anni è lo chef di Cantine a Mare, il ristorante di pesce in zona Dateo che dopo un anno di apertura ha conquistato il quartiere. Dalla pizzeria di paese alle cucine stellate, fino alla società con Angelo Altieri: "La ristorazione si impara a 360 gradi, non solo dietro ai fornelli"

Gaetano, un anno di Cantine a Mare: come sta andando? Quali sono stati i riscontri del quartiere?

Il quartiere sta rispondendo davvero bene, meglio di quanto ci aspettassimo. Abbiamo clienti che tornano regolarmente, in modo costante. C'è chi viene anche una volta a settimana, e per noi questo è il segnale più importante. Quando qualcuno decide di tornare con questa frequenza vuol dire che stiamo facendo un buon lavoro, che trova qualcosa che lo soddisfa davvero. Questi feedback di chi viene spesso sono quelli che ci aiutano a crescere di più, perché sono sinceri, costruttivi. È una gratifica continua che ti spinge a dare sempre il massimo.

Come nasce il progetto con Angelo Altieri e cosa rappresenta per te?

L'idea di fare una società con Angelo è molto stimolante. Questo tipo di collaborazione ti aiuta a crescere a tutto tondo, in ogni aspetto della ristorazione. Il punto è che se ti concentri solo su un reparto, finisci per vedere solo una parte del mondo della ristorazione. Puoi essere perfetto tecnicamente in cucina, avere piatti straordinari, ma se poi non funziona la sala, se l'accoglienza non è all'altezza, il servizio non fluisce, allora tutto il lavoro perde di senso.
Per questo motivo sto spesso in sala. Mi piace davvero uscire dalla cucina, andare ai tavoli a chiedere se va tutto bene, parlare con i clienti, capire le loro reazioni. Mi confronto continuamente con Daniele Catalano, il nostro responsabile di sala, perché credo fermamente che cucina e sala debbano lavorare come un'unica squadra, non come due mondi separati. Solo così si crea un'esperienza completa.

Quanto conta il rapporto diretto con il cliente nella costruzione della vostra identità?
Conta moltissimo, è fondamentale. Il dialogo con chi viene a trovarci ci dà la misura di quello che stiamo facendo. Però bisogna stare attenti: il cliente non può farti perdere la via che hai scelto. Devi ascoltare, certo, ma bisogna anche rispettare gli obiettivi che ti sei dato, la visione che hai del tuo lavoro.

Quando siamo partiti con questo progetto, l'idea iniziale era di fare una cucina molto classica, tradizionale. Ma appena ho visto il locale, lo spazio, l'atmosfera che si respirava, ho capito subito che il mood non era quello. Serviva qualcosa di diverso. Volevo creare una carta con piatti non riproducibili a casa, piatti che dessero alle persone una ragione vera per venire al ristorante, un'esperienza che non potessero vivere altrove.

Che tipo di cucina hai in mente? Qual è la tua filosofia?
Per me la cucina è legata profondamente ai ricordi, alle emozioni, al territorio da cui vengo. Arrivo da Marcianise, porto con me quella cultura gastronomica campana, e credo che al ristorante le persone debbano vivere un'esperienza autentica, non solo mangiare.
Non mi piace la cucina estrema, quella che stupisce solo per stupire. La cucina deve essere rispettosa della materia prima, curata nei dettagli ma mai scontata. Deve avere personalità senza essere arrogante. Ho carta bianca in questo progetto e la uso per lavorare su materie prime di qualità, su abbinamenti che abbiano senso, su giochi di consistenze che arricchiscano il piatto senza appesantirlo.

L'obiettivo finale è semplice: rendere i clienti felici. Per me il metro di giudizio più onesto è quando il piatto torna indietro pulito, completamente vuoto. Quello è il segnale vero che hai centrato il punto, che hai toccato le corde giuste.

Come definiresti la vostra proposta gastronomica? Quali sono i pilastri della cucina di Cantine a Mare?

È una cucina mediterranea e stagionale, fortemente impostata sul pesce. Mi piace lavorare con tre o quattro ingredienti al massimo per piatto. Cerco l'essenzialità, piatti puliti dove ogni elemento ha un ruolo preciso, niente è messo lì per caso.

A volte prendo una materia prima e la porto all'estremo, la esploro in tutte le sue possibilità. Il pomodoro, per esempio, è un ingrediente su cui lavoro tantissimo, lo declino in mille modi diversi. Produciamo quasi tutto internamente: dai concentrati di pomodoro alle salse madri, ai fondi di cottura. È un lavoro che richiede tempo ed energia, ma fa la differenza.

Una cosa di cui vado particolarmente fiero è che abbiamo gli scarti quasi a zero. Usiamo tutto, anche le lische dei pesci per i fondi, anche gli scarti dei limoni. È una questione di rispetto verso il prodotto e di sostenibilità. Non possiamo più permetterci di sprecare.

Quali sono i piatti che stanno funzionando di più in questo periodo? Raccontaci qualche signature.

Adesso uno dei piatti più richiesti è l'ombrina alla plancha con fondo d'arrosto e cavolfiori in doppia cottura: uno grigliato per dare quella nota affumicata e croccante, l'altro ridotto a purea per la cremosità. È un piatto che gioca sui contrasti ma resta molto pulito, molto riconoscibile.
Poi c'è il risotto alla pescatora, che è forse il piatto che più mi rappresenta. C'è il pomodoro brasato, la maionese di polpo che dà cremosità e sapidità, l'estratto di prezzemolo per la freschezza, la riduzione di crostacei per la profondità di gusto, e infine la zuppa di pesce che lega tutto. Sono tanti elementi ma lavorano in armonia, ognuno ha il suo perché.

Il bello è che vendiamo ugualmente quasi tutti i piatti del menu. Non c'è un piatto che trascina gli altri, e questo per me significa che la carta è equilibrata, che ogni proposta ha una sua dignità e intercetta gusti diversi.

Come lavorate sulla materia prima? Avete fornitori di fiducia?

Usiamo tanto pescato del giorno che prendiamo direttamente dal mercato del pesce. Mi piace questa idea di lavorare su quello che il mare offre in quel momento, ti obbliga a essere creativo, a non fossilizzarti su ricette rigide. Anche gli ortaggi li prendiamo al mercato, cerchiamo sempre prodotti freschi, stagionali.

La freschezza e la qualità sono assolutamente fondamentali per il tipo di cucina che facciamo. Se lavori con pochi ingredienti, se punti sull'essenzialità, non puoi permetterti prodotti mediocri. Ogni elemento si sente, si percepisce. La materia prima deve essere il punto di partenza, non un dettaglio.

Raccontaci il tuo percorso: come si diventa chef? Da dove sei partito?

A 14 anni ho iniziato in una pizzeria di paese, vicino a casa. Lì ho capito che la cucina mi piaceva davvero, che volevo farne il mio lavoro. Poi ho iniziato a fare le stagioni, quelle esperienze intense che ti formano velocemente, ti mettono sotto pressione, ti insegnano i ritmi veri della ristorazione.

Sono stato da Hackert a Caserta, dove c'erano sia il ristorante che un'accademia di cucina. Quella è stata un'esperienza fondamentale per me. Lì ho imparato moltissimo perché di giorno facevo una doppia vita: ero sia assistente degli chef stellati che venivano a insegnare, sia studente che imparava le tecniche. Vedere chef di quel livello all'opera, capire come ragionano, come costruiscono un piatto, è stata una palestra incredibile.

Dopo quella esperienza sono stato sous chef da Ilario Vinciguerra, e quello è stato il momento cruciale. È stata la mia prima vera esperienza di gestione della cucina, non ero più solo l'esecutore ma dovevo coordinare, decidere, assumermi responsabilità. Ogni tappa mi ha insegnato qualcosa di diverso, ogni chef con cui ho lavorato mi ha trasmesso una parte del suo modo di vedere la cucina. Adesso cerco di mettere insieme tutto quello che ho imparato e di costruire qualcosa di mio, di personale.
 

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