Il futuro dell’osteria secondo lo chef barlettano Raffaele Dargenio

Pubblicato il 10 luglio 2021

Il futuro dell’osteria secondo lo chef barlettano Raffaele Dargenio

Dopo anni di lavoro nelle cucine venete, lo chef pugliese ha scelto di tornare a casa. Per la sua Barletta ha una ricetta tutta speciale

Dopo il lockdown e i disagi portati da questa pandemia, in molti stanno riscoprendo il piacere di tornare al ristorante, meglio se non stellato. Spesso si sceglie l’osteria, garanzia di ottimi piatti, a prezzi ragionevoli e con un'accoglienza che esalta il calore umano e la convivialità, tutte cose che negli ultimi sedici mesi abbiamo rischiato di dimenticare. Persino Bottura ha messo questa parola in uno dei suoi progetti, Gucci Osteria, per riscaldare il concetto di fine dining.

A Barletta l'oste ha il volto di Raffaele Dargenio, chef patron di Su&So Osteria, un ambizioso progetto in cui il ricettario della tradizione veneto si fonde con quello pugliese. Ma cosa significa essere un oste oggi? Lo abbiamo chiesto a chi ogni giorno spiega le sue tovaglie a quadretti rossi in via Carlo Maria Giulini 46, a Barletta.

Raffaele Dargenio, cos’è per te l’osteria?
È un posto dove ci si sente a casa, dove se vieni a cenare in tuta, vieni accolto. All'osteria ci si dà del tu e c'è ampio spazio per i piatti della tradizione. Mi piace sempre ricordare che prima l'osteria era un posto dedicato al bere. Ed è proprio in quei luoghi che è nato il concetto di coperto, che molti criticano, ma che ha una sua precisa funzione.



Quale?
La parola nasce dalla possibilità offerta dalle osterie a tutti i viaggiatori che arrivavano a cavallo, di poter mangiare ciò che avevano con sé in un posto sicuro, al coperto. Ciò che si pagava dunque era il bere e il posto occupato. Da Su&So ci teniamo molto a offrire un coperto che sia accogliente.

Come realizzi questo concetto da Su e So?
Prima di tutto con il tovagliato. Alla tovaglia a quadretti abbiamo aggiunto, appena sotto, le tovaglie bianche. All'arrivo, i nostri clienti hanno in tavola il nostro pane e i nostri taralli, rigorosamente fatti in casa. In più, portiamo in tavola acqua naturale e frizzante in bottiglie a cui teniamo moltissimo e che sono diventate l'oggetto del desiderio per molti clienti. Nel nostro caso, mi sento di dire che chiedere un prezzo per questo allestimento iniziale è solo un mezzo per accogliere al meglio i nostri clienti.

Quando hai deciso che saresti diventato un oste e non un ristoratore come tutti gli altri?
Dopo aver lavorato per parecchi anni al Dall'Amelia, un ristorante di Mestre, e l'esperienza all'Osteria Ai Carmini (oggi Osteria Ai Camini), mi sono accorto che i clienti erano sempre più orientati verso piatti più casalinghi, rustici. Nello stesso periodo esplodeva la cucina molecolare, ma erano altri tempi. Eravamo liberi, nessuno si immaginava che avremmo vissuto una pandemia. Ora ritrovo quella voglia di mangiare le cose di una volta. E, oltre alla tradizione pugliese, ho voluto raccontare nella mia terra qualcosa delle osterie di Venezia.


Ti sei mai pentito di essere tornato?
No, anche se sento che, all'arrivo a Barletta, ho perso per un attimo il mio baricentro. Dopo quindici anni a Venezia, avevo incontrato mia moglie, veneta Doc. Insieme abbiamo avuto una bambina e abbiamo pensato di tornare a casa insieme. Ma la verità è che dopo tanti anni lontano, quando torni, tutti i problemi che prima ti sembravano “normali”, diventano insopportabili. Per questo incoraggio i giovani ad andare fuori per poi tornare e portare le novità che hanno appreso nella propria terra.

Cosa si dovrebbe fare per cancellare i limiti della ristorazione in Puglia?
Prima di tutto valorizzare i nostri prodotti. Non riusciamo a creare realtà che possano portare le nostre mozzarelle all'estero attraverso un marchio a protezione del prodotto. Al Nord non sanno cos’è un caciocavallo o la stracciatella. Il non plus ultra della mozzarella in Veneto è quella da supermercato di alta fascia. Penso che a Barletta solo Maffei è riuscito ad affrontare il mercato europeo. Nel mio piccolo, lotto contro gli stereotipi, cercando di proporre una cucina apparentemente lontanissima, ma molto gustosa.

Come riesci a sdoganare questi piatti?
Lasciando che la gente si fidi di me. Ci sono clienti che ormai ci considerano la tappa fissa della propria domenica. Il passaparola ci sta premiando.

Chi è l’oste contemporaneo? A cosa deve essere attento?
L'oste contemporaneo deve stare attento ai clienti, che deve fidelizzare. In più, deve fare attenzione ai prodotti che usa, dal più semplice pomodorino agli affettati, che devono raccontare un territorio ben delineato. Inoltre, oggi non si può più trascurare tutto l'universo delle allergie e delle intolleranze. Da noi può cenare sia chi non può assumere glutine sia chi non regge il lattosio.


Come deve essere il piatto da osteria?
Mai sciatto. Si mangia come a casa, ma siamo qui anche per regalare un momento di bellezza ai nostri clienti. Per questi ci teniamo all’impiattamento, punto d'incontro della mia esperienza tra fine dining e osteria. È anche una forma di rispetto verso il cliente a cui, attraverso il decoro del cibo, diamo la giusta importanza. Anche il semplice gambero rosso crudo arriva in tavola con eleganza, servito su stracciatella locale, con un filo di olio crudo. Poi c'è l'attenzione alla materia prima, sempre massima. Il pesce lo scelgo io, ogni giorno, per mettere in tavola un carpaccio di pesce sempre fresco.


Prezzi alti o bassi?
Sono contrario ai prezzi bassissimi: bisogna trovare la via di mezzo per valorizzare il prodotto e il lavoro di chi cucina e serve.

Dovevi inaugurare il 15 marzo 2020, ma la pandemia ha bloccato tutto. Come hai lavorato in questi mesi per far sì che il sogno di una vita restasse vivido?
Ho aperto il 28 maggio 2020 senza inaugurazione. Fermarsi per me voleva dire morire. Ho lavorato con la pizzeria e un po' di cucina d'asporto. Poi mi sono dedicati ai taralli, che ho iniziato a regalare ai clienti più affezionato. Quei taralli mi hanno salvato: quando lo sconforto rischiava di buttarmi a terra, venivo qui e mi mettevo a impastarli.


Cosa significa essere ristoratori oggi, in Puglia?
Per me è la realizzazione di un sogno. Chiunque parta facendo questo mestiere, ha due strade davanti: o diventare il migliore chef del mondo o aprirsi un proprio locale. Fare il ristoratore ora, in Puglia e in Italia, è difficile: hai tantissime spese, siamo nel mirino dei giornali, che ci criticano per la questione personale, sempre più difficile da trovare. Da me i dipendenti vengono rispettati. Ciò che secondo me non viene ben compreso è che formare un ragazzo nella ristorazione non è la stessa cosa rispetto a un altro settore: con un apprendista io rischio in sala e in cucina. Aiuterebbe avere dei contratti pensati per la ristorazione. Ora stiamo ancora spazzando le macerie che ci siamo lasciati dietro dopo questa pandemia: è difficile ripartire. Per chi come me ha aperto quest'anno non c'è stato nemmeno il conforto dei ristori. Lo Stato, ma anche le istituzioni locali, mi hanno abbandonato.

I clienti sono tornati a tavola: cosa hai visto sui volti di chi si è seduto da Su&So Osteria?
All’inizio paura, perché il secondo lockdown è stato diverso dal primo. Oggi abbiamo paura di ricadere nel baratro, mentre dopo il primo pensavamo fosse tutto finito. E poi c’è il terrorismo mediatico, che spinge forte sulla paura collettiva. Tuttavia ho visto anche tanta voglia di andare avanti: la gente è stanca del limitazioni e vuole tornare a vivere liberamente.

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scritto da:

Stefania Leo

Giornalista e appassionata di cibo, amo vedere e raccontare tutte le storie che si intrecciano in un piatto. Cucino, leggo e non mi fermo davanti a nessun ingrediente sconosciuto: è solo il punto di partenza per un nuovo viaggio gastronomico.

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